Una scandalosa decisione della Conferenza Episcopale Italiana, destinata a suscitare polemiche: "i vescovi non sono tenuti a denunciare i pedofili". I vescovi non sono pubblici ufficiali, pertanto possono tacere. Ma non solo: sono persino "esonerati dall'obbligo di deporre o esibire documenti in merito a quanto conosciuto o detenuto per ragione del proprio ministero".
Ma davvero non essere pubblici ufficiali esonera dall'obbligo morale di denunciare eventuali casi di abusi su minori? Dopo i molteplici "scandali pedofilia" emersi in tutte le parti del mondo che hanno travolto il Vaticano in questi anni, ed in particolare nel 2010, credevamo e speravamo che su questo tema ci potesse essere maggiore severità da parte delle autorità ecclesiastiche, dopo che è emerso come in diversi casi alti prelati fossero a conoscenza dei comportamenti di alcuni sacerdoti ma non fossero intervenuti nemmeno per interrompere la situazione: invece sembra proprio che non sia cosi...
di seguito l'articolo di Ruben Mattia Santorsa per ilritaglio.it
La Cei assolve i vescovi:”Non sono tenuti a denunciare i pedofili”.
Il diritto al silenzio su illeciti sessuali contro minori è stato sancito ieri dalla Cei nelle linee guida per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori, appunto. La spiegazione è formale: per l’ordinamento italiano, il vescovo non è pubblico ufficiale né incaricato di pubblico servizio, quindi può tacere. Se la legge sostiene il punto di vista, diversa è la morale. «Nel caso in cui per gli illeciti in oggetto siano in atto indagini o sia aperto un procedimento penale secondo il diritto dello Stato – per la Cei – risulterà importante la cooperazione del vescovo con le autorità civili nell’ambito delle rispettive competenze e nel rispetto della normativa concordataria e civile». A far discutere sono pure i numeri. Tra 2000 e 2011 i casi di pedofilia che hanno riguardato il clero sono stati 135, secondo la stessa Cei. Solo 77 risultano alla magistratura. Per questi, 22 sono stati i condannati in primo grado, 17 in secondo, 21 quelli che hanno patteggiato, 12 i casi archiviati, 5 gli assolti. Insomma, il problema c’è, a volte si vede, spesso si tace. I vescovi sono inoltre «esonerati dall’obbligo di deporre o esibire documenti in merito a quanto conosciuto o detenuto per ragione del proprio ministero».
Nel caso di indagini su casi di pedofilia per giudizi canonici, il vescovo «non può far riferimento ad atti o conclusioni definitive o non definitive del procedimento statale», ma deve valutare personalmente. Secondo il diritto, certo, ma quello canonico. Eventuali atti su processi canonici possono essere chiesti dall’autorità giudiziaria di Stato ma «non possono costituire oggetto di un ordine di esibizione o sequestro». La collaborazione è affidata, è il caso di dirlo, al buon cuore del vescovo, che però, si ribadisce, «tratterà i suoi sacerdoti come un padre e un fratello».
Questo significa che bisogna fare tutto in famiglia, in silenzio, senza troppo scalpore.
«Nell’ordinamento italiano il vescovo – si legge nelle Linee guida, passate al vaglio preventivo della Congregazione della Fede -, non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale nè di incaricato di pubblico servizio, non ha l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti». Un passaggio ribadito in conferenza stampa da mons. Mariano Crociata, segretario generale della Cei, che lo ha spiegato così: «Noi non possiamo chiedere a un vescovo di diventare un pubblico ufficiale. Ciò non significa che sia impedito a prendere l’iniziativa, anzi. Ma formalizzarlo avrebbe significato introdurre qualcosa che contrasta con l’ordinamento». «C’è la volontà assoluta di collaborare – ha comunque sottolineato il presule – che sta già nell’azione ordinaria». E che nel documento è sottolineata al capitolo II, paragrafo 5 quando si dice che «risulterà importante la cooperazione del vescovo con l’autorità civile, nell’ambito delle rispettive competenze e nel rispetto della normativa concordataria e civile». Mons. Crociata ha poi rilevato una situazione particolare per la Chiesa italiana poichè, ha spiegato, «la vicinanza con la Congregazione per la Dottrina della Fede comporta un rapporto immediato» che «consente di tenere sotto controllo il territorio».
«La situazione – ha aggiunto – è obiettivamente governata in modo adeguato». Intanto, emergono anche dati precisi sul fenomeno pedofilia in Italia. Fino ad un anno fa, infatti, la Cei aveva parlato genericamente di un centinaio di casi. Ora, le cifre puntuali. I casi «emersi» e «segnalati all’ex Sant’Uffizio», dal 2000 ad oggi, sono stati 135. Di questi, per quanto riguarda il processo canonico, 53 sono state le condanne, quattro le assoluzioni e i restanti casi risultano in istruttoria. Per quanto riguarda invece il foro civile, dei 135 casi, 77 sono stati denunciati alla magistratura con 22 condanne in primo grado, 17 in secondo, 21 patteggiamenti, cinque assoluzioni, 12 archiviazioni. Mons. Crociata ha quindi ricordato l’attenzione della Cei alla prevenzione e alla formazione del clero mentre ha assicurato che «il reinserimento non è un ritorno alla pastorale ordinaria: un prete che ha avuto questi problemi non torna ad avere possibilità di contatto con minori». «È importante – ha commentato – sentirsi tutti parte di uno sforzo collettivo per combattere la piaga della pedofilia che è enorme, si parla di decine di migliaia di pedofili in Italia». Ma la Chiesa non ha sottostimato il fenomeno? «Non credo – ha replicato con serenità il vescovo -, gli sforzi sono cresciuti in maniera proporzionata alla conoscenza che via, via è emersa».
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